Le letture di questa domenica celebrano l’importanza di saper ringraziare.
I protagonisti sono due lebbrosi. Nel Secondo libro dei Re Naaman, il siriano – quindi uno straniero – viene guarito dal profeta Eliseo; come risposta, si impegna a vivere nell’amore di Dio, rinunciando a servire altri idoli, di cui la vita di ciascuno è piena… Nel Vangelo è centrale la figura di un samaritano – anche qui uno straniero, considerato semipagano e disprezzato – che, vedendosi risanato dalla lebbra, torna indietro lodando Dio.
La lebbra è una malattia tremenda. Non solo perché consuma la carne, ma perché isola: il pericolo e la paura del contagio – nella pandemia l’abbiamo toccato con mano – portano a tenersi a distanza: il lebbroso sperimenta la solitudine, la lontananza, l’esclusione dal corpo familiare e sociale. Se poi vi aggiungiamo che la lebbra era considerata anche un segno della punizione divina, il quadro è completo.
Il Vangelo presenta dieci lebbrosi. Tutti dieci sono concordi nel rivolgersi a Gesù, gli consegnano la loro sofferenza, il loro disagio, ne invocano la compassione. Tutti dieci sono guariti, ma uno solo di loro torna indietro a ringraziare. Di qui la delusione, l’amarezza di Gesù: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono?”.
Il cuore del racconto, lo comprendiamo bene, non sta nel miracolo della guarigione, ma nel comportamento delle persone.
Sappiamo per esperienza di come sia tutt’altro che scontata la riconoscenza. E non è solo questione di buona educazione, ma di quale sguardo uno ha sulla vita. Respiriamo un po’ tutti quella cultura dei diritti, che a volte maschera semplicemente le proprie pretese, che ritiene che tutto ci sia in qualche modo dovuto. Quando viviamo così possiamo anche ricevere tanti doni, ma restiamo incapaci di vederli e di riconoscerne la sorgente. San Francesco sa lodare, sa ringraziare il Signore per ogni cosa – per l’acqua, per il fuoco, per il sole e la luna, sa riconoscere la luce delle stelle perfino negli occhi oscuri del lupo – perché legge la vita come un dono e le cose, gli eventi, le persone come un segno della Provvidenza di Dio. Vede l’acqua, ma sa andare oltre, sa risalire alla sorgente… Allora tutto diventa grazia…
A questo sguardo di santità siamo chiamati; santità che c’è anche oggi, come ha sottolineato Papa Francesco giovedì scorso, ricordando la “santità nei genitori che crescono con amore i figli, negli uomini e nelle donne che svolgono con impegno il lavoro quotidiano, nelle persone che sopportano una condizione di infermità, negli anziani che continuano a sorridere e offrire saggezza”.
E nel ricordare che “non si diventa santi con il muso lungo: ci vuole un cuore gioioso e aperto alla speranza”, il Papa ha citato proprio l’esempio del beato Carlo Acutis.
Tra poco ascolteremo la testimonianza della mamma di Carlo, la Signora Antonia, che nel raccontare il segreto del figlio – morto esattamente 16 anni fa – confida come, anche davanti diagnosi drammatica della malattia che se lo stava portando via, egli “non sprecò parole di preoccupazione, non lasciò che l’ansia o l’angoscia arrivassero a conquistarlo. Reagì affidandosi al Signore. E in questo affidamento decise di sorridere”, forte di quella serenità e di quella gioia che furono uno dei tratti distintivi che hanno sempre accompagnato la sua breve vita, un tratto che contagiava tutti.
“Carlo mi ha insegnato a impostare la mia quotidianità in chiave di ricerca della Grazia, attingendo continuamente ai sacramenti – sono parole di mamma Antonia – e questo ci aiuta a vedere ogni istante della nostra vita ricco di una luce inimmaginabile”. E ancora: “Se si ha questa consapevolezza s’impara a vivere in modo appassionato la realtà che ci circonda”. S’impara a ringraziare, ad essere riconoscenti per tutto e per tutti. S’impara ad amare con gratuità, restituendo l’amore che ci è stato donato.
L’intercessione del beato Carlo Acutis e degli Angeli Custodi “ci apra alla riconoscenza e ci consenta di fare esperienza di una gioia grande, che – come ha ricordato ancora il Papa – non è l’emozione di un istante o un semplice ottimismo umano, ma la certezza di poter affrontare tutto con la grazia e l’audacia che provengono da Dio”.