Nel terzo anniversario della morte del compianto arcivescovo, la cronaca di un evento che ne segnò profondamente la vita e la vocazione sacerdotale.
È cosa tipica dei vecchi perdersi nei racconti della gioventù. Talvolta per nostalgia, o piuttosto per dare ragione della propria vita. Con l’età tali storie diventano ripetitive e infarcite di un’aurea che li fa sembrare quasi leggendari o comunque appartenenti ad un tempo indefinito, proprio perché divenuti un tutt’uno con la vita stessa di chi li narra.
Chi ha conosciuto personalmente Mons. Giuseppe Chiaretti, nato a Leonessa, nel reatino, il 19 aprile 1933 e arcivescovo di Perugia dal 1995 al 2009, sa bene che non gli mancavano di certo occasione e parola per raccontare ed interpretare.
Tra tutte le vicende con le quali amava intrattenere i suoi (talvolta malcapitati) uditori, una pareva essere al centro della sua memoria e particolarmente cara al suo ricordo. Era uno di quegli eventi vissuti da bambino che uno ricorda in modo poco nitido ma che si imprime tanto fortemente nella memoria da caratterizzare lo svolgersi di tutta una vita, e nel caso di un prete, guida e caratterizza la stessa vocazione come l’idea stessa che s’interne del sacerdozio.
Era Il venerdì di Passione, 31 marzo 1944. Si parlava di una intera divisione in attività tra Cascia, Leonessa e Poggio Bustone. Vi si distinguono le tristemente famose S.S. fra i tedeschi e un tenente della Milizia fascista. Incominciarono i rastrellamenti degli uomini nel capoluogo e nelle frazioni. Fra gli arrestati vi sono l’avv. Pietrostefani e il Commissario dott. Ugo Tavani. Si terrorizza con ogni mezzo il paese. La Domenica delle Palme, 2 aprile, il Generale tedesco, comandante la spedizione, sembra dare un respiro a Leonessa, perché, congedandosi dal Commissario dott. Tavani, gli dice: “Per questa volta Leonessa è salva. Però, in guardia! … La popolazione con a capo il Clero risponde presso di voi, e voi risponderete per tutti dinanzi al Comando Germanico“. Invece il lunedì santo ripresero le operazioni di polizia. Il mercoledì sono convocati al Comando tedesco anche i due Parroci, l’Abate don Pio Palla di S. Pietro e Don Guido Rosini di S. Maria, che, negli interrogatori vengono accusati di essere “badogliani“. Don Pio è tradotto il giorno stesso al Palazzo del Governo a Rieti, dove il Giovedì Santo è raggiunto anche da don Guido Rosini.
La sera dello stesso giovedì si sparge per Leonessa la notizia che i rastrellati erano stati liberati. La popolazione ne giubila ed espone a ringraziamento la statua del Concittadino S. Giuseppe. Ma purtroppo non fu che un’atroce beffa.
La mattina del Venerdì Santo i pochi agricoltori rimasti sono lasciati liberi di andare ai lavori dei campi. Don Concezio Chiaretti, cugino del piccolo Giuseppe di appena 11 anni celebra la Messa a S. Maria. Alle dieci un nuovo colpo di scena. Si stringe l’assedio a Leonessa e alle 11 arriva un grosso plotone delle S.S. al comando di un ufficiale. Orribile a dirsi, i tedeschi sono guidati da una sciagurata giovane di Cumulata, una delle 36 Ville di Leonessa, presso Colleverde, tale Rosina Cesaretti, che la notte precedente li aveva condotti nella sua stessa frazione per compiere le proprie vendette, perfino contro la propria famiglia. Aveva fatto fucilare tredici uomini, tra cui suo fratello. Si scrisse che osò perfino additare la propria madre ai massacratori. Due soli giovani riuscirono a salvarsi, nascondendosi sotto un mucchio di letame. A Leonessa ripeté il suo gesto nefando denunciando falsamente le persone più rispettabili. Fra questi don Concezio Chiaretti, catturato mentre usciva dalla chiesa di San Giuseppe, dove aveva disfatto il Sepolcro. Fa ricercare anche i due Parroci, e quando viene a sapere che essi erano già in mano dei tedeschi, davanti alla canonica di S. Egidio grida trionfante: “Bene, bene! Due li han loro, uno noi! Ci sono tutti e tre!”
In breve, altri ventidue uomini sono catturati con don Concezio e ammassati dinanzi al negozio del cav. Palla, all’angolo della Piazza con il Corso Vittorio Emanuele.
Don Concezio recita il Breviario e dinanzi alla sua calma anche gli altri si mantengono relativamente tranquilli, pensando che tutto si sarebbe risolto con un interrogatorio a Rieti.
Alle 14,30 i prigionieri vennero fatti salire in Municipio, dove sono derubati dei porta-fogli, che poi vennero ritrovati vuoti. Dal Municipio gli infelici, ignari della propria sorte, sono fatti discendere e, per via della Ripa, condotti fuori delle Mura in località “Fossatello”. Pensarono ingenuamente che dovesse sopraggiungere un autocarro a rilevarli.
Invece alle 15 precise, nell’ora sacra alla Morte di Nostro Signore Gesù Cristo, un colpo di rivoltella dà il segnale della loro orribile immolazione. Don Concezio fa appena in tempo a mandar loro un segno di assoluzione che una scarica di mitragliatrice li abbatte. Il dott. Pascolini si è fatto fieramente il Segno della Croce, dopo essersi tolto il pastrano e averlo piegato sulla siepe attigua. Il Di Paoli ha lanciato come ultimo grido: S. Giuseppe, aiutami!
Tutta Leonessa, si può dire, è presente alla raccapricciante tragedia, perché il luogo dell’esecuzione è esposto al suo sguardo. Don Concezio, allora, fattosi ormai certo della sorte che lo aspettava, incominciò a confortare e ad assolvere gli altri suoi compagni di sventura.
Vien fatto subito avanzare il secondo gruppo di altri cinque, con in testa don Concezio e il Commissario del Comune dott. Ugo Tavani. Don Concezio impartì ancora l’Assoluzione ai morituri inginocchiandosi a terra in atto di chiedere per sé stesso perdono a Dio. I soldati tedeschi lo fecero alzare a calci, e il Sacerdote, intrepido, tracciò un gran Segno di Croce sulla sua diletta cittadina di Leonessa. E così cade insieme a quelli del suo gruppo mentre da una finestra vicina i genitori assistevano a quel massacro.
L’eccidio di Leonessa interpretato dal pittore Massimo Bigioni
Il piccolo Giuseppe, che, quando catturarono il cugino sacerdote, al termine della funzione del Venerdì Santo, era con lui a far da chierichetto ci raccontava, ancora immedesimandosi in quel tragico evento, dopo tanti anni: “Ricordo la madre di don Concezio Chiaretti, il quale stava celebrando la sua ultima messa entrare in chiesa per gemergli alle spalle, con un grido soffocato: “Scappa, fiju mia: li tedeschi te stau cercanno…”. Don Concezio impallidì e chiuse gli occhi per una preghiera senza parole; continuò la celebrazione poi, a fronte alta, uscì per la sua personale Via crucis. E la madre si raggomitolò su sé stessa, in attesa del dramma.
E quel sette di aprile! Il silenzio assurdo di Leonessa colpita a morte, deserta nelle sue strade, carica di fatalità, lacerata a tratti dalle urla straziate di tante donne: di Veronica, che si riportava a casa il corpo senza vita di Gigino, e di tutte le altre che assistettero al massacro senza poter intervenire, e si chinarono poi su quei corpi, allineati tra pozze di sangue sulle predelle degli altari dentro San Francesco, con al centro, sotto il tabernacolo, quello di don Concezio Chiaretti, che mia madre, insieme ad altre donne, lavò con tenerezza, come fosse il corpo di Gesù, chiudendo alle tempie i fori delle pallottole, timorosa di toccare così da vicino (me lo raccontava spesso…) il corpo d’un prete… E poi raccolsero i brandelli di carne scheggiata per chiuderli tutti insieme in una cassetta di zinco (quanto pesava quella cassetta!), e fecero poi un lamento funebre senza più lacrime, in quella strana Pasqua senza campane e senza alleluia”.
L’arcivescovo Giuseppe Chiaretti… ormai anziano
Tanto forte fu la testimonianza di quel prete, insieme alla sua gente fino all’ultimo, che don Giuseppe, ormai divenuto anch’egli sacerdote, la porterà sempre con se, dapprima nel suo ministero di parroco, di educatore, e poi nel più complesso e delicato ministero episcopale, facendo di ogni sua scelta e di ogni suo impegno una sorta di dono di sé, anche se non del sangue… ma certo della vita.