Un fariseo e un pubblicano: due modi diversi, opposti, inconciliabili di vivere, di abitare la vita, di rapportarsi con Dio e con gli altri.
Il fariseo incarna una tentazione tanto diffusa quanto pericolosa: quella di sentirsi a posto, di non aver nulla di cui chiedere perdono. Si presenta nel tempio non per ringraziare Dio, ma per vantare se stesso, per esaltarsi, per esporre l’elenco di quello che fa e che considera merito proprio. A ben vedere, quest’uomo è pieno di se stesso: non c’è dialogo con Dio nel fariseo, non c’è fede o, almeno, non c’è fede in Dio, ma solo in se stesso. Quella del fariseo non è una preghiera, ma la triste caricatura di chi è convinto di non aver bisogno di nessuno. È significativo che questo rapporto sfalsato con Dio si riflette in un rapporto sfalsato con gli altri: chi ripone in sé la propria sicurezza scivola facilmente nell’orgoglio, nella superbia, nella presunzione; ci si sente legittimati a giudicare e a disprezzare gli altri, rispetto ai quali ci si considera diversi, migliori, superiori: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini”.
Ben diverso è l’atteggiamento del pubblicano, che con sincerità e sofferenza riconosce la propria povertà, si sente indegno, resta in fondo al tempio con gli occhi bassi, battendosi il petto. La sua preghiera – “O Dio, abbi pietà di me peccatore” – è la preghiera di chi si affida al Signore, confida nel suo perdono, invoca la sua misericordia.
Il Vangelo ci chiede il cuore umile: siamo tutti peccatori perdonati, direbbe Papa Francesco, persone che per vivere hanno bisogno ogni giorno del perdono di Dio e dei fratelli. “Non mi slancio verso il primo posto, ma verso l’ultimo – scriveva Santa Teresa di Lisieux –; invece di farmi avanti con il fariseo, ripeto, piena di fiducia, la preghiera umile del pubblicano”. Chi vive così, chi è animato da questa consapevolezza, è libero dal giudizio sugli altri e disponibile anche a compatirne le miserie; si apre alla comprensione, alla pazienza, al servizio, si sente partecipe delle vicende che toccano gli altri.
È con questo spirito che vogliamo pregare per due intenzioni.
Innanzitutto, per i missionari e le loro comunità. In questa domenica, Giornata Missionaria Mondiale, nella quale il messaggio del Papa rilancia le parole di Gesù – “Mi sarete testimoni” – esprimiamo la nostra gratitudine per chi annuncia la vita buona del Vangelo e costruisce comunità cristiane che sono segno e strumento della presenza del Signore in questo nostro mondo e in questo nostro tempo. A loro va, insieme alla nostra preghiera, la nostra solidarietà anche materiale, insieme all’impegno a fare la nostra parte per aiutare altri a riconoscere la presenza luminosa e liberante del Signore.
L’altra intenzione è per la pace. A questo proposito, ci uniamo a quanti in questi giorni nelle piazze di tutto il Paese tornano a chiedere con forza il cessate il fuoco in Ucraina: tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare “un negoziato credibile per fermare la guerra”.
Preghiamo con la speranza degli umili, con la fiducia del Siracide, convinto che “la preghiera del povero attraversa le nubi” e arriva a Dio che “ascolta la preghiera dell’oppresso”.