Nei giorni scorsi ho letto la recensione di un libro, che fotografa una situazione che, per molti versi, ci tocca da vicino fin dal titolo: “Scontenti”. La scontentezza – leggo – è “un malessere personale e sociale”, “un male interiore”, che “porta all’animosità”; “uno stato d’incompiutezza che non trova sbocco religioso e che sfocia in malcontento e ribellione”. Ancora: “Ci inoltriamo in un vuoto di punti fermi, di legami di provenienza e di orizzonti di aspettativa…”.
Quanto è distante questa condizione esasperata (disperata?) dalla serena consapevolezza che Gesù ha di sé: “Sapendo che era venuto da Dio e a Dio ritornava…”. Queste parole sono scritte per noi: siamo venuti da Dio, a Dio apparteniamo e a Dio ritorniamo… È questa è la sintesi, piena di speranza, che la fede cristiana offre della parabola della vita…
E distante da quell’essere continuamente preoccupati di sé rimane anche l’atteggiamento che anima Gesù, perfino nella notte in cui viene tradito: “Sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”. Non dice, come forse avremmo concluso noi: “Avendo amato i suoi, decise che era finalmente tempo per pensare a sé”; ma: “li amò sino alla fine”.
Il racconto della lavanda dei piedi ci rivela fino in fondo l’identità di Gesù. Quando si era invitati a partecipare a un banchetto, sulla porta un servo lavava i piedi per consentire di entrare e di sedersi a tavola con gli altri. Così, nel suo amore il Signore si abbassa e si fa servo: ci lava dalle nostre sporcizie e ci rende la possibilità di accedere al Padre e di riconoscerci fratelli, comunità, sua Chiesa.
Certo, “là dove Dio non pone limiti, è possibile che limiti vengano posti dall’uomo” (J. Ratzinger). Il primo lo riconosciamo nella figura di Giuda: in quell’ultima Cena Gesù ha lavato i piedi anche a lui, eppure Giuda non entra in questa dinamica d’amore; nella sua avidità si chiude alla bontà misericordiosa. L’altro rifiuto rischia di porlo Pietro, figura dell’uomo pio, devoto, ma che pretenderebbe di salvarsi da solo, di rendersi puro da sé: “Tu non mi laverai i piedi in eterno!”.
La vera umiltà è quella di chi si lascia raggiungere e salvare dall’amore del Signore, pane per noi spezzato, vino per noi versato. In Lui – in Cristo Gesù, nel mistero della sua passione, morte e risurrezione che si rinnova in ogni Eucaristia – veniamo liberati da una vita ripiegata su noi stessi, che è sterile e rende scontenti; veniamo restituiti alla verità più profonda di ciò che siamo: persone per le quali il Signore ha dato la sua vita.
È quanto abbiamo vissuto anche questa mattina, celebrando la liturgia della Parola, nel carcere di Capanne, compiendo il gesto della lavanda dei piedi ad alcune decine di detenute e detenuti in un clima di profondo raccoglimento e di profonda commozione che ti fa sentire che per essere perdonato, a volte, devi davvero toccare il fondo della tua povertà e della tua miseria. Si toccava con mano un bisogno, un desiderio, una disponibilità a far spazio all’amore del Signore e a rialzarsi. Questa sera preghiamo per le tante famiglie che sono provate dal terremoto perché fuori casa, e abbiamo invitato alcuni di loro, simbolicamente, per non dimenticarci di questi fratelli e di queste sorelle che celebrano una Pasqua nella difficoltà e nel disagio. Sappiamo cosa sia la mancanza della casa.
Preghiamo per loro e per ciascuno di noi, perché sappiamo lasciarci raggiungere dalla Pasqua del Signore, perché sia per ciascuno “l’inizio dei mesi, il primo mese dell’anno”, come richiamava la pagina dell’Esodo; sarà il Capodanno da cui discende l’anno di grazia del Signore; sarà la luna nuova di una primavera che non sfuma, che ci rimette in cammino verso casa, incontro a Colui che in realtà ci abita. “Senza di te, o Dio, non esisterebbe nulla di tutto ciò che esiste – ricorda Sant’Agostino, che aggiunge –: “noi stessi non esisteremo, se tu non fossi già in noi”.