Rischiano di essere goffe e banali le parole pronunciate in faccia alla morte: non saranno loro – le parole – a ricoprire la distanza, ad accorciare questa terra di nessuno tra chi si congeda e chi rimane. Non saranno le parole a rischiarare la notte, questa notte che avvolge e inghiotte in fretta tutte le cose, rivelando quanto sia vana la loro pretesa di imporsi come importanti.
Nel contempo, proprio questo momento, che ci vede riuniti sulle tombe dei nostri cari, fa emergere per contrasto il valore infinito della vita di ciascuno, la sua ricchezza, la sua profondità, che riluce negli ideali che l’hanno animata, nel lavoro con cui ognuno ha dato il proprio contributo a una famiglia e alla comunità, nelle relazioni e negli atti concreti d’amore che hanno intessuto l’esistenza; amore ricevuto e donato nello scorrere dei giorni.
Sì, nel fare memoria dei nostri defunti non facciamo fatica a riconoscere che c’è altro, oltre la cronaca tumultuosa – e, per certi versi, così piatta – del quotidiano; un qualcos’altro che ci impedisce, davanti alle poche realtà che contano davvero, di accontentarci di un vivere superficiale e mediocre; c’è un qualcos’altro, che ci fa sperimentare una sana inquietudine di fronte al mistero che siamo e che anche nei non credenti dischiude la speranza di non essere semplicemente destinati alla polvere. Su queste tombe ci ritroviamo tutti a fermarci pensosi, in ascolto.
E per tutti questa presenza in preghiera sul Cimitero diventa espressione di memoria riconoscente e di gratitudine. Siamo qui per dire grazie a quanti, nelle forme più diverse e spesso nascoste, hanno contribuito a plasmare il nostro cuore e il nostro sguardo sulla vita: grazie a un papà, a una mamma, a un fratello, a un figlio, ad un amico per la traccia indelebile che hanno lasciato in noi.
Con la gratitudine esprimiamo la fiducia che si rimane persona anche quando un vento impetuoso si abbatte sulla casa dell’uomo e riduce in macerie le sue attese i suoi progetti, i suoi anni; un vento – sia la malattia, un incidente o semplicemente l’età – che dilegua, scardina, disperde la vita, la spreca: quanto spreco c’è nella morte di una persona, quanto vuoto lascia nella vita di chi gli sopravvive!
Ad un altro Vento affidiamo i nostri defunti. Quel Vento che la tradizione cristiana chiama Spirito Santo, Spirito di vita, che contiene una ragione, una verità, una buona notizia, che è via di risposta all’interrogativo più profondo che ci portiamo dentro in merito alla nostra sorte futura.
Se ci guardiamo attorno, gli indizi della presenza di questo Spirito non mancano. Nella vita dei nostri cari – vivi e defunti – la sua impronta si è fatta vicina e riconoscibile: parla il linguaggio della santità. Una santità anonima, feriale, quella che Papa Francesco definisce “la santità della porta accanto”. Una santità che incarna lo spirito delle Beatitudini e lo traduce in vita vissuta: quella di Cristo, innanzitutto – è Lui il mite, il misericordioso, l’uomo di pace – e quella di quanti lo seguono con umiltà e fiducia.
Preghiamo per i nostri morti, affidiamoli a Colui che ha vinto per sempre la morte, intesa come la realtà che ci separava definitivamente gli uni dagli altri e segnava l’assenza radicale di Dio. Come professiamo nel Credo, Gesù “morì e fu sepolto”, è disceso agli inferi, in questo abisso di lontananza e di solitudine estrema, e ora avvolge ciascuno nella sua vittoria pasquale: è il Signore della vita che non conosce tramonto e che getta fin d’ora la sua luce sui nostri passi e fa sì che, almeno in parte, noi non apparteniamo più soltanto alla terra, ma il nostro cuore è anche là dove si trovano i nostri cari.
La loro memoria non sia perciò fonte solo del dolore dell’assenza, nella nostalgia di ciò che è stato, ma si faccia compagnia che aiuta a vivere il presente con l’eredità di valori che ci hanno trasmesso; si faccia attesa di una pienezza che darà valore di eternità agli sguardi, agli incontri, agli affetti; attesa di un luogo in cui finalmente ritrovarsi e abitare non più in maniera precaria e caduca.