Omelia del cardinale arcivescovo Gualtiero Bassetti della celebrazione della Passione del Signore del Venerdì Santo 10 aprile 2020 nella cattedrale di Perugia

Per tre lunghe ore Gesù agonizza sulla Croce. Ai piedi della croce stanno sua madre e il discepolo prediletto. “Ecco, questo è tuo figlio”, dice a Lei, e “questa è la madre tua”, dice a Giovanni. È come se svincolasse da sé l’amore di cui lo circondano queste due creature. Egli vuole essere solo. Si è addossato il nostro debito. Nessuno deve assisterlo.

Quello che sia passato nell’animo di Gesù in quell’ora nessuno lo sa. Poi Egli ad alta voce gridò: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. Nessuno mai solleverà il velo su questo mistero: come il Figlio di Dio possa essere abbandonato da Dio. Noi possiamo solo dire questo: fino ad ora ha sentito la vicinanza del Padre come conforto e sostegno. Ora anche questo gli viene meno. Egli è solo, spogliato di tutto, anche delle sue vesti: potremmo dire della sua stessa dignità. Abbandonato da tutti. Solo davanti al Padre. Nessuno potrà mai rendersi conto di cosa ciò voglia dire. Una cosa sola ora lo sostiene: la sua incrollabile fedeltà alla missione avuta dal Padre e il suo inconcepibile amore per noi. Ed è in questo amore che Egli si consuma finché tutto è compiuto.

L’antifona, che si proclama il Venerdì Santo prima del racconto della Passione, tratta dalla lettera ai Filippesi (Fil 2, 8) è come un preludio per tutta la Settimana Santa: “Umiliò sé stesso, facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome”: il nome di Signore.

“Umiliò sé stesso”. Non si avvalse del suo diritto di essere figlio di Dio. Non lo ritenne un privilegio, ci dice San Paolo, “ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. E potremmo aggiungere: fino ad inabissarsi sul più profondo della nostra voragine.

“Si è umiliato”, ma non ci ha umiliato. Piuttosto dovremmo dire che Lui “ha preso il nostro posto”.

Molti anni fa, leggendo il libro di Giovanni Papini “I testimoni della Passione”, mi colpì il racconto di Barabba che lui intitolava: “il figlio del Padre”. È appunto questa l’etimologia del suo nome. Barabba era conosciutissimo da tutti, a modo suo era stato un rivoluzionario… poi aveva compiuto un delitto… ed era in prigione. Naturalmente quello che Papini racconta è una leggenda, ma potrebbe essere verosimile. Subito dopo che Gesù si avviò verso il Calvario, Pilato fece liberare Barabba e gli avrebbe detto: “questi tuoi concittadini mi hanno costretto a liberare te che sei un assassino, invece dell’altro che era innocente”. Pilato torvo più del solito, fece cenno ai soldati che lo strattonarono fino alla gradinata che conduceva in piazza. Barabba tornò a casa sua e disse ai fratelli: chi di voi conosceva Gesù il Nazareno? Che delitto aveva commesso? Aveva ucciso? No, gli risposero i fratelli.

Il fratello Eleazzaro, il più piccolo, gli disse: ma a te che importa tutto questo? Ora sei libero! La sua condanna ti ha reso la vita. Sì – rispose Barabba – ma oggi stesso quel Gesù muore al mio posto, muore per me! Trascorse – dice Papini -,  una notte agitata, poi la mattina presto si recò al Golgota: c’erano ancora piantate le tre croci. Quella di mezzo aveva scolature di sangue raggrumate, ma ancora fresco per effetto della rugiada notturna. Barabba toccò quel sangue e disse: “Questo è sangue versato per conto mio, per me!”. E così Barabba si sarebbe poi convertito

Fratelli, si tratta di una leggenda, di una bellissima leggenda, che racchiude però una grande verità. Dice l’Apostolo Paolo, nella lettera al Galati: “mi ha amato e ha dato tutto sé stesso per me!”.

Impariamo ad incontrarci col Crocifisso. Purtroppo siamo troppo abituati a vederlo dappertutto, che quasi siamo diventati indifferenti. San Bonaventura definisce il crocifisso “prodigio di giustizia, modello di sofferenza, stimolo e provocazione d’amore”.

Pensiamo al Crocifisso, particolarmente in questo giorno, pensiamo al Crocifisso e vediamo tutti i luoghi dove si soffre, pensiamo al Crocifisso e auguriamo che chiunque venga a consegnare la propria vita, anche in questo periodo di epidemia possa avere la consolazione di avere fra le mani il Crocifisso. nelle mani di chi muore. Poiché tutti soffriamo e poiché tutti dobbiamo morire, impariamo a guardare più e meglio l’immagine del Crocifisso, e meditiamo su tutto ciò che questa immagine rappresenta.

Sarà il pensiero di Barabba: “è morto al mio posto”. Sarà il pensiero di San Paolo: “Mi ha amato e ha dato tutto sé stesso per me”. Sarà il pensiero di San Bonaventura, che sopra ho citato.

Il cuore di Cristo è stato squarciato per rimanere sempre aperto. Guardiamo questa ferita, e in questo cuore aperto cerchiamo il nostro rifugio e la nostra salvezza.

Stasera chiedo per me, per voi, per tutti coloro che ci stanno seguendo, soprattutto i più sofferenti, che il Padre misericordioso apra la nostra mente e il nostro cuore e ci renda sempre capaci di ascolto e di risposta, perché le piaghe di ogni fratello e ogni sorella, anche quelle di coloro che non conosciamo, sono le ferite del Crocifisso.