Fratelli e Sorelle, è davvero indescrivibile l’emozione con cui torno a celebrare la Santa Eucaristia nella nostra amata chiesa cattedrale, dopo i giorni drammatici del ricovero ospedaliero e poi della convalescenza.
Sono grato al Signore di poter essere ancora con voi a spezzare il pane e di vita. Ringrazio tutti per la vicinanza e la fervorosa preghiera al Signore e alla Madonna della Grazia. L’affetto e la preghiera di tanta gente, ne sono certo, mi ha aiutato tanto a vincere il male. Il Bambino Gesù, con la sua fragilità, ci insegna ad avere fiducia e a guardare al futuro sempre con speranza.
La liturgia della Parola di questo santo giorno è culminata con la proclamazione del “Prologo” del vangelo secondo Giovanni, una delle pagine del Nuovo Testamento che ci fa raggiungere le vette più elevate del pensiero cristiano, e, anzi, le vette più alte di ogni riflessione su Dio. All’umanità, che con il suo desiderio di infinito cerca qualcosa di più grande della propria limitata esistenza, l’evangelista risponde dicendo che Dio ha parlato con il Verbo, prima attraverso la creazione (perché «tutto è stato fatto per mezzo di lui»), poi per mezzo dei Profeti – come si è visto anche nella seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei – e, infine, Dio ha liberamente deciso di farsi conoscere entrando nella nostra stessa condizione umana: la Parola di Dio ha preso la nostra carne.
Carissimi fratelli e sorelle, solo salendo così in alto, con lo stesso sguardo di un’aquila – che è tradizionalmente il simbolo dell’evangelista Giovanni – possiamo contemplare tale mistero; ma dobbiamo stare attenti: se leggiamo bene il Prologo, l’evangelista ci invita anche a tornare alla nostra esperienza umana più concreta. Infatti, che «il Logos divenne carne» non vuol dire tanto che la Parola «si è fatta uomo», ma che ha condiviso la nostra condizione umana, quella, cioè, sottoposta alle leggi del divenire e della caducità. Il Dio eterno, nel suo stato divino celeste e spirituale, ha scelto che la carne – come scrisse un autore cristiano del III secolo, Tertulliano – diventasse il luogo della salvezza: «Caro salutis est cardo”, «la carne è il cardine della salvezza» (De carnis resurrectione, 8,3: PL 2,806).
Il Verbo eterno ha preso la carne della debolezza. Quanta differenza c’è tra l’idea sbagliata, che spesso ci facciamo, di un Dio lontano, impassibile, che mai però è rappresentato in questo modo nella Scrittura, e la rivelazione del Dio di Gesù Cristo, e che in Gesù ha condiviso la nostra vita.
Fortemente provato dal Coronavirus. Non c’è bisogno, fratelli e sorelle, che io insista su questo punto. Il Signore ha permesso che anche il vostro Vescovo, come centinaia di migliaia di persone nel nostro Paese, e milioni nel mondo, venisse fortemente provato dal Coronavirus. Non c’è bisogno che spieghi che cosa sia la debolezza della nostra carne, che a volte immaginiamo inattaccabile, invincibile, e che invece mai come in questa pandemia mostra la sua fragilità.
Cristo non si è tenuto lontano da questa umanità fragile, e ha scelto questo destino, ha scelto la nostra sorte, ma per invitarci ad alzare lo sguardo: solo accogliendo con verità la nostra condizione, possiamo invocare quella grazia che il Figlio è venuto a darci: «la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17), ha scritto l’evangelista.
Ringraziamo Dio anziché lamentarci. Carissimi, «in questo tempo difficile, anziché lamentarci di quello che la pandemia ci impedisce di fare», come ci ha detto papa Francesco all’Angelus di domenica scorsa, ringraziamo Dio perché abbiamo potuto celebrare la memoria della nascita di quel bambino che fu «avvolto in fasce e posto in una mangiatoia» (Lc 2,7). È lì, diceva ancora il Papa, nella mangiatoia di Betlemme, che «c’è la realtà, la povertà, l’amore. Prepariamo il cuore come ha fatto Maria: libero dal male, accogliente, pronto a ospitare Dio» (Angelus, 20 dicembre 2020).
Il dito puntato. E accogliamo Gesù anche come ha fatto san Giuseppe, la cui presenza discreta e paterna mai manca accanto a Maria e al bambino. In quest’anno speciale che il Papa ha dedicato al Patrono della Chiesa universale, chiediamo a Giuseppe la sua stessa tenerezza. Quella che ha avuto per il figlio di Maria, e che – scrive il Papa – ci permette anche di «toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità» (Francesco, Patris corde, 2).
Solo la tenerezza che un padre può avere per il proprio figlio, può farci guardare con misericordia i nostri limiti, e permetterci di essere misericordiosi e caritatevoli con gli altri. E Dio solo sa quante famiglie, quante persone, quanti poveri hanno ancora più bisogno oggi, anche in questi giorni di festa, della nostra attenzione e della nostra opera. Siate aperti di cuore, siate solidali con chi ha bisogno.
Auguri, fratelli e sorelle carissimi, perché la luce di questo Natale, così diverso dagli altri, lasciatemelo dire umanamente parlando, così drammatico, illumini la nostra mente nel cammino di questa vita terrena, e ci conceda «di partecipare alla sua gloria nel cielo» (Colletta della Messa della Notte).
Gualtiero Card. Bassetti