“Come sei, ben integrata?”. Me lo sono sempre sentita dire, fin da piccola, accompagnato da un decorativo complimento sulle proprietà linguistiche dimostrate. Addirittura, delle volte volutamente ostentate, in particolare sull’assenza di qualsivoglia inflessione. Quindi un altro flashback. Eravamo in classe, nei banchi dell’ultima fila, molto lontani dalla cattedra. Quel luogo che, da che mondo è mondo, è il regno incontrastato del chiacchiericcio. Parlavamo dei nostri genitori, e ai commenti sugli arrivi dei migranti via mare a un certo punto sbottai dicendo: “Guarda che sono anche io una clandestina!”.
Al che il mio compagno di banco rispose: “Ma non eri nata qua?”. A quel punto, con domanda retorica sentenziavo: “E che differenza c’è?”. Avevamo solo 8 anni o poco più. Molte persone direbbero, non a torto, che la differenza c’è. Tuttavia, dopo aver attraversato alcuni spazi di pensiero critico, di attivismo e di militanza, è arrivata una spiegazione all’interno, intuizione di una bambina infastidita da alcune parole.
Esiste un immaginario molto forte, rafforzato da una ventennale narrazione che a quella domanda risponde che non c’è una reale differenza. Si continuano a rappresentare le persone di origine straniera solo come una pericolosa massa unica in arrivo attraverso gli sbarchi, o come individui criminali rappresentativi di una comunità, oppure, nei rari casi in cui i toni non sono strettame nte negativi, come l’eccezione rappresentata da singole personalità meritevoli di essere, tutto sommato, considerate parte della società. È un lungo racconto, quello portato avanti dai media, che si presenta come oggettivo e imparziale, di cui si sottovaluta fin troppo come questo trascini moltissime persone a percepirsi secondo quelle parole, interiorizzando quei concetti che hanno una finalità ben precisa: confinare al di fuori della società. […] Le immagini di barche piene di persone di cui è impossibile spesso il riconoscere i volti: il volto dell’assassino, dello spacciatore, dello stupratore, dell’atleta, le cui doti sono irraggiungibili, è diventato improvvisamente volto da straniero. Se da un lato questo ha come effetto portare avanti una visione unica e semplificata della persona straniera, ha come ulteriore conseguenza l’incapacità di reagire agli episodi di razzismo. Come reagire, del resto, se tutto ti porta ad accettare che quella narrazione sia corretta? Come mettere in discussione i finti complimenti che applaudono all’integrazione o la paura indotta in alcune persone per certi accenti o tratti somatici? […] Un nuovo attivismo, fatto principalmente da persone giovani di origine straniera, sta trovando uno spazio di parola e di reazione, proprio partendo da quei termini da quell’immaginario che per troppo tempo ha impedito a tante giovani persone di rivendicare il proprio diritto a sentirsi parte della società. Si prova a proporre nuove storie, narrazioni che non sono davvero nuove, non che prima non siano esistite, ma non sono mai state davvero viste né ascoltate […] Non dobbiamo essere integrati, noi siamo già qui.
Tratto da: Caritas-Migrantes, Rapporto immigrazione 2024, “Popoli in cammino”, Roma 2024, pp. 221- 223