Vi ringrazio per la partecipazione: in voi abbraccio idealmente tutte le comunità della nostra Diocesi e, in particolare, i tanti – laici, diaconi e presbiteri – che vi si spendono con dedizione e gratuità.
Viviamo questa giornata come tappa di un cammino sinodale che ci vede coinvolti con tutta la Chiesa nella ricerca delle vie con cui riappropriarci del messaggio liberante del Vangelo e, quindi, annunciarlo all’uomo del nostro tempo.
La fase sapienziale, che caratterizza quest’anno, punta a mettere a fuoco un sogno di Chiesa e a individuare i passi da compiere per realizzarlo. È in questa prospettiva che si inserisce il percorso di confronto e di discernimento comunitario che ha caratterizzato l’Assemblea dello scorso maggio, proseguito nell’ascolto di quanto le unità pastorali hanno voluto condividermi nei mesi di giugno e luglio e che a settembre ha trovato restituzione nella Lettera pastorale. L’appuntamento odierno costituisce un ulteriore tassello, che avrà la sua continuazione nei Consigli diocesani, nelle zone e nelle unità pastorali. Con serena pazienza, vogliamo giungere a formulare alcune proposte operative sulle quali impegnarci, come chiederà l’ultima fase del Sinodo – la fase profetica – a partire dall’autunno 2024.
I nostri lavori non possono prescindere dal dramma che insanguina il Medio Oriente e che porta con sé una deriva disumana di cui sono vittima civili inermi, famiglie e popolazioni già provate. Il primo contributo che possiamo offrire rimane quello della preghiera: invito tutte le comunità a intensificarla, raccogliendo l’appello del Patriarca di Gerusalemme e rilanciato dalla Chiesa italiana per martedì 17 ottobre. Una celebrazione eucaristica per la pace in Terra Santa la vivremo in Cattedrale martedì 24 ottobre alle 18.
La condivisione della sete di pace, giustizia e riconciliazione che sale dall’umanità, non può farci distogliere gli occhi da quelli di casa (cfr. Is 58,7): quanti in mezzo a noi vivono ai margini, esposti alla povertà economica, alla solitudine e alla fatica educativa, alla malattia e al lutto, alla fragilità e all’incertezza, che diventano paura di non farcela. In particolare, penso ai ragazzi privi di relazioni significative, di motivazioni allo studio o di aspettative professionali, a quanti soffrono il disagio e la difficoltà di inserirsi nei modelli culturali correnti.
Come ho sottolineato nella Lettera pastorale, “la comunità cristiana rimane un anticorpo all’isolamento, un presidio inestimabile che plasma e chiama in gioco la responsabilità individuale, una proposta di percorsi di incontro, di formazione e di spiritualità, aperta anche a quanti non conoscono gli ambienti parrocchiali o che se ne sono allontanati; una rete di relazioni che accoglie, custodisce e accompagna”.
So quanto, in realtà, tutto questo non sia facile e quante domande restino sospese circa la nostra capacità di essere all’altezza di tali responsabilità.
Giusto un mese fa, eravamo a San Sisto con quanti avevano preso parte alla Giornata mondiale della gioventù. Terminato l’incontro, siamo usciti sul sagrato dove – nonostante fosse ormai tardi e l’indomani ci fosse scuola – i ragazzi apparivano lontani dall’idea di prendere la via di casa. In chiesa, con la loro freschezza, ci hanno condiviso le parole chiave dell’esperienza di Lisbona, cosa abbia significato per loro parteciparvi e, soprattutto, come intendano portarne avanti l’eredità. Erano centinaia, ma a un certo punto mi è sembrato che sui colori delle loro voci prevalesse il silenzio della maggioranza dei loro coetanei, ai quali i contenuti della fede rimangono sconosciuti e la Chiesa una sorta di realtà invisibile. È una cifra che non riguarda soltanto i giovani: a livello generale si è ampiamente affermata un’autonomia nelle credenze e una libertà negli stili di vita, dove il riferimento ultimo è all’unicità dell’esperienza personale.
Su questo sfondo come interpretare l’indicazione di cammino lanciata proprio a Lisbona dal Papa, quel suo “Todos, todos, todos!”?
“Nella Chiesa – ha rimarcato – c’è spazio per tutti, per tutti! Nessuno è inutile, nessuno è superfluo, c’è spazio per tutti. Così come siamo. Tutti, tutti, tutti. E questa è la Chiesa, la Madre di tutti”.
In controluce le parole del Papa fanno riaffiorare la parabola di un banchetto nuziale, preparato a festa. Sappiamo come andarono le cose: in un primo tempo, il racconto narra l’indifferenza, il disinteresse, il rifiuto degli invitati: non soltanto non provano la gioia di essere coinvolti, ma manifestano perfino il fastidio per essere stati disturbati dalla proposta. Altro è quanto portano nel cuore, indaffarati come sono nel perimetro delle cose di sempre: i campi, i buoi, gli affari…
“Il campanile non chiama più, come accadeva fino a pochi anni fa. Invece di un popolo, intorno alla mensa eucaristica c’è un gregge disperso che frequenta sempre meno”: così scriveva Avvenire un paio di settimane fa, in un’ampia pagina dedicata al calo della partecipazione alle celebrazioni. “All’appello – scrive ancora il quotidiano – mancano in particolare i ragazzi: i praticanti assidui tra gli adolescenti (14-17 anni) sono passati dal 37% del 2001 al 12% del 2022 e tra i 18 e i 19 anni sono scesi dal 23% all’8%” (Avvenire, 30 settembre 2023).
Sono percentuali che contribuiscono a disegnare una Chiesa che esce da un certo immaginario storico e si riconosce minoranza. La decrescita è significativa e generalizzata e intacca in maniera decisiva anche l’universo femminile, modificando il tradizionale rapporto tra le donne e la Chiesa (cfr. l’intervento di Paola Bignardi all’Assemblea diocesana di maggio).
La fotografia non sarebbe completa – e soprattutto non ci aiuterebbe a capire difficoltà e opportunità di questo tempo – se non tenessimo insieme due dati che sono tipici del nostro Paese: un 18-19% di praticanti alla Messa e un 70% che ancora si dichiara cattolico. Il persistere di una simile maggioranza smentisce quella che era stata prospettata come una totale secolarizzazione della società. Questa stagione ci consegna, piuttosto, anche da parte di quanti sbrigativamente sono liquidati come “lontani”, una domanda diffusa di celebrare con la Chiesa – o almeno in chiesa… – particolari momenti della vita: la nascita di un figlio, la prima Comunione, la Cresima, il matrimonio o la morte di una persona cara. Allo stesso modo, siamo consapevoli di quanto sia attesa e gradita la benedizione delle famiglie o la visita a un malato… C’è un desiderio, un bisogno di sentirsi coinvolti, di dare ordine e significato a quello che accade; in certi passaggi dell’esistenza si riaffaccia il richiamo a una religione storica e a un’identità comune, a un rito collettivo in cui riconoscersi e di cui sentirsi parte.
Questa domanda spesso non porta con sé una disponibilità sul medio e lungo periodo; inoltre, si presenta fortemente marcata dalla coscienza individuale, dalla sensibilità, dalle preferenze e dai percorsi di vita del singolo. Non di rado le richieste che emergono in queste circostanze sono di personalizzare la celebrazione con elementi “profani”: si tratta di aspettative che a volte assumono la forma della pretesa, rischiando da una parte di irrigidire i parroci (o, ma non è che l’altra faccia della stessa medaglia, di vedere questi ultimi acconsentire con fare rassegnato) e, dall’altra di irritare i richiedenti, agli occhi dei quali un eventuale diniego suona incomprensibile e irricevibile.
Tornando alla parabola evangelica, non ci è difficile intuire il peso e la frustrazione dei servi, mandati invano a portare l’invito. Il loro disagio oggi parla nella stanchezza dell’evangelizzatore, nella tentazione che gli farebbe prendere le distanze da una situazione che sconcerta; parla, per altri versi, nelle divisioni che dal di dentro lacerano e impoveriscono il corpo ecclesiale.
Lo sguardo si rianima se ci si colloca nel secondo tempo della parabola, quando l’ostinazione del re manda i servi ai crocicchi delle strade, portatori di un invito gratuito e universale al banchetto della vita. Lo sguardo si rianima se davanti alla nostra situazione scegliamo di starci dentro con la fiducia che anch’essa è abitata dallo Spirito del Risorto e con la pazienza di chi non pretende di raccogliere i risultati del suo impegno. Lo sguardo si rianima se ci sentiamo inviati con il mandato di rivolgerci a tutti (“Todos, todos, todos…”), attenti a riconoscere, sotto le fragilità, il volto di ciascuno, la sua domanda di incontro e di senso, la sua sete di Dio.
Come tornare ad affasciare alla bellezza della vita cristiana?
Punto di partenza rimane la nostra relazione con Gesù Cristo, nutrita dalla frequentazione personale e comunitaria della Parola di Dio e da una partecipazione più consapevole alla liturgia; da proposte non occasionali di formazione, che “senza perdere l’originalità del messaggio cristiano, portino a rinnovare il linguaggio nelle omelie, nelle catechesi e nella celebrazione dei sacramenti; che aiutino ad affrontare i temi culturalmente emergenti, promuovendo occasioni di incontro, approfondimento e discernimento” (Lettera).
La parabola direbbe che non possiamo entrare nella sala del banchetto con il vestito vecchio, con il cuore che rimane chiuso in se stesso e al prossimo. Occorre indossare l’abito nuziale, essere luce e sale, segno e strumento della differenza cristiana.
Ripartire da Dio, dall’incontro con il Signore, dalla fede è ciò che crea un’umanità diversa, piena, viva; un’umanità che vive l’umiltà, la gratuità e la gioia, come Papa Francesco ricordava alla Chiesa italiana riunita a Firenze nel 2015.
Una Chiesa umile è costituita da credenti non ossessionati da se stessi, ma capaci di far spazio, al punto che – come sottolinea San Paolo – “considerano gli altri superiori a se stessi”.
Così, una Chiesa che vive la gratuità “non cerca il proprio interesse”, ma la felicità degli altri e si dona per il bene delle persone che le sono affidate.
Infine, una Chiesa abitata dalla gioia conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere con cordialità anche il poco che possiede, in termini di disponibilità, tempo, ascolto, assenza di giudizio, aiuto concreto…
“Se la Chiesa non assume questi sentimenti di Gesù – ammoniva Papa Francesco – si disorienta. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione”, a partire dal lasciarsi interpellare dalla vita quotidiana della nostra gente.
Anche per esperienza personale ci accorgiamo che, quando la nostra vita conosce l’umiltà, la gratuità e la gioia che nascono dal Vangelo, non fatica a trovare punti di incontro e aperture anche per l’annuncio. Ci si scopre capaci di un dialogo costruttivo con gli altri; dialogo che non svende la propria identità e le sue esigenze, ma che – proprio in forza di questa fede – pone altrettanta attenzione a offrire ascolto, comprensione e proposta.
In questo primo anno di ministero episcopale posso dire di aver trovato ben poche porte chiuse. Nonostante le difficoltà di questo tempo e nonostante il peso di certi scandali, laddove la comunità cristiana è luogo di accoglienza e fraternità, risveglia in tanti nuove disponibilità a un percorso di fede e di servizio in cui maturano ministeri laicali e vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata.
L’icona di Emmaus accompagna questa fase del cammino sinodale. Come quei due viandanti che avevano perso la speranza, lasciamo che il Signore si faccia nostro compagno e cammini – lui che è la Via – sulla nostra strada. Lasciamo che sciolga le nostre amarezze e ci educhi con il fuoco della sua Parola, fino a riscaldarci il cuore; fino a giungere a riconoscerlo nella frazione del pane. Ritroveremo il coraggio della missione, l’ardore con cui tornare nella città degli uomini e condividere con loro un annuncio di vita. “Cuori ardenti, piedi in cammino”, secondo il respiro della Giornata missionaria mondiale, che celebreremo domenica prossima.
Don Ivan, vescovo