Perugia: Mons. Saulo Scarabattoli, vicario della Prima Zona pastorale e cappellano emerito del Carcere interviene, a Umbriaoggi.news di «Umbria Radio», sul recente delitto per strada, sull’“antidoto-vaccino” delle parrocchie e sul carcere come luogo di recupero e di rinascita

Non può non fare riflettere anche la Chiesa il grave fatto di cronaca nera avvenuto a Perugia città, la notte di domenica 23 settembre, legato all’inquietante fenomeno dello spaccio e della tossicodipendenza, che ha avuto come protagonista un trentacinquenne tunisino ammazzato per strada da un connazionale di ventisette anni. A parlarne è mons. Saulo Scarabattoli, parroco di Santo Spirito, vicario episcopale della Prima Zona pastorale dell’Archidiocesi e cappellano emerito del Carcere di Capanne, in un’intervista-video a www.umbriaoggi.news di «Umbria Radio», l’emittente diocesana a diffusione regionale.

Tre linguaggi per comprendere.

«Come papa Francesco ci ricorda nel suo recente messaggio rivolto al mondo della scuola – sottolinea mons. Scarabattoli –, noi abbiamo bisogno di sviluppare tre linguaggi per riflettere su quanto è accaduto domenica scorsa nella nostra città. Sono i linguaggi dell’intelligenza, del cuore e delle mani. Il fatto è avvenuto, la cronaca lo racconta, ma noi abbiamo bisogno di questi linguaggi per comprenderlo. L’intelligenza ci aiuta a capire “il perché”, mentre la cronaca “il come” è accaduto questo fatto. Non sempre in questo linguaggio c’è un afflato, una partecipazione, una condivisione e allora c’è bisogno del linguaggio del cuore, che cerca di entrare nei sentimenti. Infine il linguaggio delle mani, cioè cosa fare di fronte a questi fatti? Se i tre linguaggi non vengono considerati un tutt’uno abbiamo un’immagine pur vera, ma sfocata ed impotente nei confronti della vastità e della problematicità di una situazione».

No a una lettura con occhiali neri.

Mons. Scarabattoli dà anche una sua chiave di lettura su come «la nostra città ha reagito a questo fatto con le reazioni più diverse. Quello che io ho percepito, è che c’è il rischio che si prenda un episodio come questo, pur drammatico, e lo si faccia diventare un caso universale, che coinvolge tutta la città. E’ già accaduto per il delitto Kercher, quando i mass media parlarono di una città intera inquinata da quel fatto. Non si può dire che tutta Perugia è così. Questo episodio dal tragico epilogo ha coinvolto in misura differente la comunità, un po’ come avviene in tante città del mondo. Poi, se si vuole sostenere che tutti gli stranieri sono pericolosi e violenti, si ha una lettura di quanto è accaduto con degli occhiali neri».

Il Vangelo, la medicina più efficace.

Il parroco di Santo Spirito parla di parrocchie e di oratori come antidoti e luoghi di prevenzione del fenomeno dello spaccio e della tossicodipendenza. «Il messaggio del Vangelo – sottolinea – è l’antidoto più efficace. Il problema è accoglierlo dalla parte dei riceventi, ma anche annunciarlo bene dalla parte degli emittenti, cioè dagli uomini di Chiesa, a cominciare da noi parroci. La Parola di Dio viene data in maniera abbondante e vorrei sperare sincera anche da parte di noi preti e degli educatori parrocchiali. Se allarghiamo lo sguardo e ci fidiamo totalmente delle parole che dicono papa Francesco e il nostro vescovo Gualtiero, anche come presidente dei Vescovi italiani, la vaccinazione in questa direzione c’è, ma poi c’è qualcuno che dice che non serve e la rifiuta, come del resto sta avvenendo, purtroppo, anche a livello medico in Italia. Il problema è quello di poter dare quest’antidoto in maniera efficace per essere accolto dalle persone. Nelle parrocchie e negli oratori l’accoglienza è come principio assolutamente proclamato e vissuto nel vedere giocare insieme bambini e ragazzi di tutte le culture, nazionalità ed estrazioni sociali, perché persistono certe divisioni nella nostra società che gli oratori aiutano a superare. Tuttavia la medicina del Vangelo, o non sappiamo somministrarla noi o non viene accolta dalle persone, spesse volte rimane relegata nelle chiese. Ad esempio, quando si esce al termine della messa dopo aver dato il segno della pace, questo segno, spesso, non ha fuori nessun seguito umano e cristiano».

Il carcere come un leone messo in libertà.

Mons. Scarabattoli si sofferma poi sul carcere: «Non serve a niente se è un cancello che viene solo chiuso. E’ come se l’ospedale fosse il luogo in cui i malati vengono portati e chiuse le porte affinché non passi l’infezione. Mentre l’ospedale è il luogo in cui le persone vengono curate e non soltanto custodite. Non c’è bisogno in Italia di moltiplicare i luoghi di detenzione, perché non si comprende il cuore dell’uomo, le esigenze della società e le speranze di recupero che ci possono essere. La speranza è che il carcere sia un luogo di recupero dove si somministri la medicina dell’amore, che ti porta a rinascere, a ricominciare».

Il sacerdote, avviandosi alla conclusione, sostiene che «se non c’è un cammino di recupero, è ovvio che le persone detenute rimangono le stesse come quando sono entrate. Sono come un leone in gabbia, che, quando lo hai liberato, continua ad essere un animale feroce. Se nel tempo della detenzione si offrono al detenuto delle occasioni di rinascita, quando uscirà sarà una persona nuova. Si parla delle pene alternative come la semilibertà, i lavori socialmente utili, l’affidamento ai servizi sociali fino alla libertà vigilata oggi di attualità. Nella nostra parrocchia, il prossimo fine settimana, porterà la sua testimonianza, grazie alla Comunità Papa Giovanni XXIII, l’ergastolano Carmelo Musumeci, in libertà vigilata, esempio dell’effetto della medicina dell’amore somministrata durante la detenzione».